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Can – Tago Mago (1971)

17 Ago

Riprende il nostro viaggio spazio-tempo-musicale riallacciandoci a uno degli ultimi EXTRA datato 29 gennaio. Vi avevo parlato di rock mescolato a spiritualità e danze popolari, e tra i gruppi citati avevamo affrontato l’isola dei Can. Vera ampolla di musica cosmica e da iniziazione. Ma eravamo già al 1972, quando a seguito dell’uscita di Ege Bamyasi, i cinque di Colonia erano già un treno senza freni con a rimorchio l’universo kraut con gruppi come Faust, Neu!, ecc. Ora torniamo all’anno precedente, al primo disco registrato in studio con la voce del nuovo cantante Damo Suzuki.

E se i suoi giochi di voce in Ege Bamyasi mi avevano fatto gridare all’horror musicale, Tago Mago ne rappresenta l’embrione e al tempo stesso un disco miliare per la sua portata innovativa. Lo avevamo detto, con Ege Bamyasi le carte era già calate da una anno, ma nel ’71 la musica dei Can era ancora tutta da scoprire, e quando uscì Tago Mago il rock tedesco non sarà più quello di prima (ammesso che ci fosse). Anche i britannici si accorsero delle potenzialità teutoniche e a Londra (anche per un motivo di sberleffo nazionalista) venne coniato il termine dispregiativo “krautrock”. Questo disco è l’emblema della genialità dei Can, la voce di Suzuki è ancora allo stato primordiale, mentre si distingue un utilizzo costante di batteria e percussioni (Jaki Liebezeit e Irmin Schmidt) e della linea di basso (Holger Czukay) talvolta bossanovata, talvolta funky.

Si parte con Paperhouse ed è una traccia deviante (che ispirerà molto dell’alternative postumo), ma già dalla successiva Mushrooms si capisce che Tago non sarà il solito disco rock degli anni ’70. Dopo Oh Yeah, si passa a tre lunghe pieces (Halleluwah, Aumgn, Peking O) dove i Can sembrano quasi infierire sull’ascoltatore con suoni ripetuti, continui, mentali, psicotici. C’è anche spazio per una chitarra in sonorità molto Cream, mentre Suzuki si atteggia a Jim Morrison. Un album da non perdere, difficile però da comprendere se non si possiede una buona base musicale. Melodia ridotta all’osso (al di là delle parti riempitive), schizzi di ansia e colori cupi dal blu di Prussia al Bruno Van Dyck. Consigliato in piccole dosi, dopo un prelavaggio a base di Frank Zappa e Brian Eno.

Focus – Moving Waves (1971)

9 Mar

Artista/Gruppo: Focus
Titolo: Moving Waves
Anno: 1971
Etichetta: Imperial/EMI-Bovema (Eu) Sire Records (Usa) I.R.S. Records (Usa, 1991)

Ho atteso molto per scrivere questa recensione, ho aspettato, ho ascoltato il disco più e più volte, due, tre consecutive, con cuffie, senza, in macchina. Mi ci sono anche addormentato (con una certa difficoltà nel prender sonno). Ora, dopo giorni di studio, posso dire che è giunto il momento di raccontarvelo.

Moving Waves (o anche Focus II) è il secondo album del gruppo progressive olandese Focus, è un disco grezzo, non eccezionalmente ricercato negli effetti, un organo Hammond, un mellotron, chitarra Gibson Les Paul (a volte con tre pick up), e poco altro. Ma il prodotto finale suona bene. Si tratta del disco che, dopo la sua uscita nel 1971, fece fare il balzo nelle classifiche a questa band, in Olanda, negli States, e soprattutto in Gran Bretagna, dove all’epoca il prog teneva già da tempo nomi altisonanti come King Crimson, Genesis, Yes.

Merito quasi esclusivo dei due artefici principali del connubio Focus: Jan Akkerman e Thijs van Leer. Il primo è un ottimo chitarrista, il secondo un curiosissimo tuttofare che a guardarlo oggi sembra Boss Hogg ma che, da gran poli-strumentista, allora si dava arie di poter competere con gente come Keith Emerson al piano, Ian Anderson al flauto e Rick Wakeman ai sintetizzatori. In realtà non riuscirà a raggiungere nessuno di questi, ma la sua verve e il suo eclettismo, daranno un contributo fondamentale al raggiungimento del successo della sua band.

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Mahavishnu Orchestra – The Inner Mounting Flame (1971)

17 Lug

Vi siete mai chiesti cosa succede quando uno dei più grossi esponenti del chitarrismo (John McLaughlin), il miglior batterista del momento (Billy Cobham) un violino pazzo (Jerry Goodman) un basso sopra le righe (Rick Laird) e un tastierista delle meraviglie (Jan Hammer) si ritrovano a suonare insieme nello stesso gruppo?

NASCE LA FUSION!!!

Chitarra e violino che si inseguono, si sorpassano e si riprendono su stridule note, sezioni ritmiche potentissime e dolci note di piano è quello che ci fa assaporare l’ascolto di questo disco.

Muddy Waters – Journeyman Blues (1971)

23 Apr

Bene, entro al negozio e chiedo: «quali dvd avete di Muddy Waters? Sa, così scelgo…». Mi presentano un ventaglio di tre opzioni. C’era anche il concerto a Montreal, ma mi attira la registrazione alla Oregon University. 40 minuti, parte con un’intervista di un paio di minuti, in macchina, con Muddy anche un pò stizzito, la qualità del video si percepisce che sarà molto scarsa.

Infatti, una volta proiettati con il filmato dentro la sala concerto se ne resta colpiti. Noto alcune cose, tra cui il fatto che eravamo in pieno clima hippie. Deve essere stato uno di quei concerti organizzati dai collettivi studenteschi, ragazzini bianchi gasatissimi al cospetto di un mostro sacro nero. Di un’intera band nera, dove spicca il nome di George “Harmonica” Smith, tanto da meritarsi il nome da guest star sulla copertina del dvd.

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ELP – Emerson Lake And Palmer (1971)

2 Apr

Artista/Gruppo: ELP
Titolo: Emerson Lake And Palmer
Anno: 1971

Sulla scia dell’ascolto di un disco così denso e intenso da meritare addirittura un 9,5/10 (Spectrum di Billy Cobham) da parte del più prolifico, fino ad adesso, dei nostri, l’unica cosa da fare è riuscire a proporre alle nostre orecchie qualcosa che nn impallidisca di fronte a cotanta maestosità.

Per fare questo mi vengono in aiuto 3 dei personaggi più innovatori e preparati del panorama musicale prog che rispondono al nome di Emerson Lake And Palmer, tutti e tre provenienti gia da prolifiche esperienze ognuno con guppi diversi (da nn dimenticare la militanza di Greg Lake nella prima e irripetibile formazione Crimson!!!).

E’ il 1970 (tre anni prima di Spectrum) quando viene pubblicato il loro primo album, un’inconfondile mix di musica elettrica e classica, il tutto condito dalla straordinaria timbrica della voce di Lake e il vigore del batterista Palmer. E’ ovvio che il ricordo indelebile delle trame armoniche e melodiche dell’album in tutti noi riemerge alla sola lettura del titolo ma poichè qualcuno, forse, nn lo conosce, vorrei cercare di nn far mancare questa “esperienza” a nessuno.
Mi scuso fin dal principio poichè sono perfettamente coscente che nn sarò ne breve e ne conciso.

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