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Dream Theater – When Dream and Day Unite (1989)

19 Ott

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Come erano i Dream Theater prima di James LaBrie? È una domanda che in pochi si pongono al primo ascolto della band di Boston. Anche perché, tra tanti capolavori come Images And Words, Awake, al contrario, il disco d’esordio, When Dream And Day Unite, per molti proprio non esiste. Nove su dieci si parte da altre vie, poi però ci si arriva e ci si deve fare i conti. Nel bene o nel male. Ascoltarlo dopo aver toccato con mano la qualità dei DT anni Novanta, equivale a scoprire che la carota all’inizio era viola. Già, c’è stato anche un tempo in cui agli assoli di Petrucci e alle rullate di Portnoy, si alternava una voce che non era quella di James LaBrie. La sorte del suo predecessore, Charlie Dominici, la conosciamo tutti. Fatto fuori, licenziato dopo un disco. Troppo limitato e piatto rispetto al prog metal a cui aspiravano gli altri. Prima di lui la stessa sorte toccò ad un certo Collins. Identico il motivo, a denotare anche una certa vena da “business-band” che contraddistingue i Dream Theater fin dall’inizio. Sempre stati impresari di se stessi…

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Cathedral – Stained Glass Stories (1978)

14 Ott

Front

Un disco provato e registrato in un monolocale che affacciava su Times Square, a New York. Eppure 10 mila copie stampate e vendute, e un successo – anche se nel suo piccolo – fuori da ogni previsione se si considera che il progressive in quel periodo aveva già scrutato tutti i suoi confini e le band più importanti che facevano da traino, avevano già abbandonato i canoni che ne avevano decretato il prematuro successo. In tutto questo c’è l’odissea dei Cathedral e del loro primo album, Stained Glass Stories.

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Bruce Springsteen – ‘The Way It Was’ The Complete Bottom Line Broadcast (2004)

4 Ott

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Greetings from Asbury Park, N.J.e The Wild, The Innocent and the E Street Shuffle erano ormai usciti da due anni (1973), per tutto il 1974 Bruce Springsteen & the E Street Band passarono la stagione sul palco. Il 9 maggio 1974, a Cambridge nel Massachusetts, durante un concerto di Bonnie Raitt, in cui Springsteen e la sua band facevano da gruppo spalla, il pubblico richiamò a gran voce il Boss per esibirsi di nuovo. Ad assistere a quel concerto c’era il critico della rivista Rolling Stone, Jon Landau, che su The Real Paper di Boston, culminò la sua recensione con una frase che farà la fortuna di Bruce: «Ho visto il futuro del rock and roll e il suo nome è Bruce Springsteen». Nel frattempo, la band stava lavorando sul terzo album, Born To Run, uscito dopo 18 mesi di gestazione, ma che regalò al Boss la definitiva consacrazione. In questo periodo si incastrano le registrazioni di ‘The Way It Was’ The Complete Bottom Line Broadcast.

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Bruce Springsteen – The Wild, The Innocent & The E-Street Shuffle (1973)

12 Set

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Come potrete notare, continuo a battere il chiodo sul 1973. Un anno per certi versi interessante. Oggi vi segnalo un disco che più azzeccato in senso storico non potevo trovare in questo periodo. Ieri infatti, 11 settembre, ricorrevano i 40 dalla pubblicazione di The Wild, the Innocent & the E-Street Shuffle. Non mi capita mai di azzeccare qualche anniversario, e quindi anche se l’ho scoperto con un giorno di ritardo permettetemi questa licenza. Eppoi, visto che stiamo parlando di uno degli artisti più nazionalisti della storia del pop/rock, mi sembra sia giusto anche constatare che il questo disco del “Boss” cade proprio in una delle date più nere della storia moderna americana. No, nessun segno di premonizione dai testi, era il ’73, esattamente 28 anni prima dell’attentato alle Torri gemelle.

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Traffic – Shoot Out At The Fantasy Factory (1973)

2 Ago

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Ho acquistato questo disco chissà dove, probabilmente in qualche bancarella o perché forse era in offerta in qualche Feltrinelli o simili. Shoot Out at the Fantasy Factory, settimo album (sesto se si considerano solo quelli in studio) pubblicato nel 1973 dai Traffic, dietro – probabilmente – preghiera schietta di Steve Winwood a Jim Capaldi e compagni, che nel frattempo, mentre il polistrumentista leader e fondatore, se ne girovagava per il mondo con il supergruppo dei Blind Faith, avevano creato una nuova band i cui lavori al momento ignoro.

Passando alla disamina del disco, Shoot Out per gli amici, sensazioni di impotenza miste a noia. Per carità, nutro sempre grandissimo rispetto per Winwood e ancor più per i Traffic, che tra John Barleycorn e Mr. Fantasy, continuano a sorprendermi per genialità e originalità di una nuova concezione musicale a cavallo dei ’70. Però, solo due anni dopo sembrano ancora attaccati a quello stereotipo, difficile da scardinare per chi ha fatto la storia del rock-progressive di quegli anni. Non stiamo parlando di Canterbury, e ci mancherebbe. Eppure i Traffic sono sempre stati assimilati un po’ al prog, come i Jethro Tull. Deve avergli fatto male l’etichetta, allora.

Shoot Out at the Fantasy Factory allora da la vaga impressione di un materiale di scarto di precedenti lavori, quasi a doverlo fare, un’ostinazione nel tenere ancora in vita un gruppo che – era scritto – si sarebbe sciolto dopo l’album successivo, 1974. Restano alcune “perline” come Roll Right Stones e Evening Blue, per il resto, una buona colonna sonora per una serata in compagnia. Quasi il disco rendesse di più a volume basso (ed è tutto un dire…). Anche perché stavolta, aumentando i decibel il risultato non cambia, salvo il manico di scopa della signora di sotto…

Queen – Innuendo (1991)

9 Gen

innuendoTristezza, abbandono, dolore, voglia di vivere, di proseguire, di lasciare il segno. Comunque. Tutto questo è Innuendo, al contrario di quanto ai posteri verrà lasciato simbolicamente. L’ultimo disco registrato in studio da Freddie Mercury e pubblicato circa 10 mesi prima della sua morte per Aids. Col senno di poi lascia interdetti la semplicità con cui uno degli artisti più incisivi della musica del Novecento, lasciava alle note i suoi innumerevoli testamenti. Cantava I’m Going Slightly Mad e soprattutto The Show Must Go On che varrà come suo ultimo volere, in barba alla malinconia con cui i suoi compagni di avventura in 20 anni di carriera lo hanno accompagnato sull’ultimo altare.

E non importa se quel testo alla fine emerse averlo scritto Brian May. Il risultato, il senso, e il voler veicolare un messaggio comunque positivo rimangono. Specie perché la lenta debilitazione che la malattia procurò a Mercury colpì l’intera band, nessuno escluso. Non è un caso che proprio The Show Must Go On sia l’ultima traccia dell’album, Mercury volevano fosse ricordato così, con il sorriso del giocoliere dell’illustrazione di copertina ispirata a J.J. Grandville.

Una storia, l’ultima in presa diretta (alla quale va escluso Made in Heaven perché postumo alla morte del cantante) che i Queen offrono di loro stessi, senza più veli perché ormai tra riviste scandalistiche e allussioni dei quotidiani, il gossip era ormai passato dalla leggenda alla dura realtà. I Queen finiscono qui, e non poteva esserci fine più vera per un gruppo tanto vero. Questi sono i Queen che ringraziano tutti, compreso l’amico ex Yes, Stewe Howe, artefice del meraviglioso solo di chitarra spagnola nella “bohemian” title track. Innuendo va assaggiato a fondo, letto e riletto, solo così riesce a svelare la sua insita essenza di disco finito nella sua pur effettiva incompletezza finale. Per i Queen fu una corsa contro il tempo e contro la morte. Il risultato era già scritto.

The Rolling Stones – Parachute Woman (1968)

4 Gen

In un album che fece la storia del rock blues, come Beggars Banquet, trovare un brano che resca a spiccare sugli altri è sempre impresa non da poco. Forse impossibile. Così mi sono buttato sulla vena più prettamente blues degli Stones, connettendo The Book of Saturday sulle frequenze del Rock’nRoll Circus (1968) regalandovi questa stupenda Parachute Woman dal vivo: 2’40” di assoluta trance alle dipendenze della voce e dell’armonica di Mick Jagger e dei riff di Keith Richards. Un banchetto propiziatorio, appunto. Lambiente saturo di blues, i ragazzi in poncho a dare tinta all’atmosfera, tutti coinvolti compresi gli addetti alle riprese…

Ray Charles – The Very Best Of Ray Charles (2000)

16 Dic

FrontNel panorama del blues, del gospel, del R&B, e anche del country si commette spesso un errore comune, si dimentica la figura di Ray Charles. Poliedrico e intelligentissimo pianista dalla spiccata eccentricità. Il suo nome richiama soprattutto la musica soul, Hit the Road Jack per esempio. Nota a tutti, splendente e vibrante nella sua brevitas di duetti con le coriste. Era solo il 1961, è ancora attualissima.

Ma Charles in quasi 60 anni di musica, ci aveva abituati anche a tante sfumature che rimane tuttora complicato stabilire quale fosse il genere da lui praticato. Vale la pena riascoltare allora la semi-natalizia I Can’t Stop Loving You, oppure Georgia on My Mind, e anche i tanti richiami che lo stesso James Brown, di una decade successiva, fece suoi per cavalcare il successo del soul/R&B.

Per capire Ray Charles (viste le immense pubblicazioni per lo più di singoli), vi consiglio la raccolta della Rhino Records (etichetta specializzata in retrospettive) e pubblicasta per la prima volta nel 2000 dal titolo non proprio originalissimo The Very Best of Ray Charles. Sicuramente più originale nel suo interno, con un interessante booklet che ripercorre i suoi anni alla Atlantic Records fin dai suoi esordi: dalla perdita della vista a 7 anni alla morte prematura della madre e la conseguente partenza per Jacksonville e i suoi esordi nei club di Seattle, poi di Los Angeles.

Carlos Santana, Mahavishnu John McLaughlin – Love Devotion Surrender (1972)

19 Nov

Artista/Gruppo: Carlos Santana, Mahavishnu John McLaughlin
Titolo:  Love Devotion Surrender
Anno: 1972
Etichetta: Columbia

Torniamo al rock. O meglio, qualcosa si simile. Se Love Devotion Surrender (o Love, Devotion, Surrender) possa considerarsi un album rock, lo lascio dire ad altri. A me pare troppo jazz per definirlo rock e troppo rock per considerarlo jazz. È Love Devotion Surrender, un incrocio, un passaggio fondamentale della carriera di due dei più grandi chitarristi della storia della musica: Carlos Santana e i suoi frizzoli, John McLaughlin e la sua vena psicobuddhista accelerata dalla smania di protagonismo del talento precoce. Per qualcuno si tratta di un album tributo a John Coltrane, e le prime due tracce, A Love Supreme e Naima lo testimoniano.

In realtà degli originali di Coltrane resta solo la base di basso di Doug Rauch (preponderante nella prima traccia), per il resto una sequenza ininterrotta di assoli che partono dal lato destro e finiscono sul sinistro degli altoparlanti. Assordanti, stridenti e sensazionalmente eccitanti. Si prosegue su quel solco, oltre mezzora di soli sovrapposti, da sinistra a destra, dall’alto in basso. Un disco virtuoso, un incontro tra due appassionati fa di se stessi. Dove un ruolo di primo piano lo svolge anche l’organo di Yasin e i piatti jazzati di un Billy Cobham in salsa più soft rispetto alla Mahavishnu. Niente da dire: per essere il 1972 un’immagine sonora intensa e visionaria.

Vi avevo già parlato di Caravanserai, che uscì nel luglio del 1972. Sia quello che il successivo Love Devotion Surrender, uscito nell’ottobre dello stesso anno, sono ispirati al guru Srni Chimnoi, amico di McLaughlin, e che a Santana aprì le porte della percezione verso il suo personalissimo viaggio spirituale. Per alcuni Love Devotion è di Carlos Santana in collaborazione con McLaughlin, per la Columbia Records è Santana & McLaughlin, stop. Una cosa è certa: S&McL se lo sono auto prodotto il disco. Ma tra i due è Santana che deve molto di più a McLaughlin che non viceversa. E la presenza del secondo rende originale il tutto, che altrimenti sarebbe stato una copia sbiadita dei colossal dei Santana precedenti.

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EXTRA | Ayreon – The Human Equation (2004)

6 Nov

Innanzitutto una premessa: questa non è una recensione. Piuttosto un’operazione di assemblaggio di vari pezzi sparsi. Anche perché gruppi e nomi iniziano ad affastellarsi ed è bene ogni tanto mettere un po’ d’ordine. La prima volta che ascoltai The Human Equation degli Ayreon rimasi colpito fin da subito per la pulizia del suono, per la qualità di arrangiamenti e scelte musicali, ma soprattutto degli artisti che vi facevano parte. Prima di ascoltare un album spesso mi documento sui componenti, sulla loro storia, ecc. Con gli Ayreon viceversa, prima c’è stato l’ascolto, ma ancor prima della fine del disco è succeduto un piccolo approfondimento. Arjen Anthony Lucassen, e d’accordo. Ma poi James LaBrie, Mikael Åkerfeldt, Heather Findlay, l’ex Uriah Heep Ken Hensley, e due figli d’arte: Devin Townsend (figlio di Pete) e Oliver Wakeman (figlio di Rick). Nomi importanti, e musicisti più o meno affermati nel 2004, tutti riuniti spassionatamente nella campagna olandese a “recitare” la loro parte nella tragedia di “Me”. Ebbene, vi avevo segnalato già questo disco, e ammetto di non essere stato allora troppo esaustivo. Stavolta la prendo da dietro, approfondendo la sua genesi direttamente dalle parole dei loro protagonisti.

Partiamo dall’origine. Era il 23 ottobre del 2003 quando sul sito web degli Ayreon arriva il grande annuncio: «Il vocalist dei Dream Theater, James LaBrie, ha confermato la propria partecipazione al nuovo album degli Ayreon, la cui pubblicazione è prevista il prossimo anno per la Transmission Records. LaBrie conosceva la musica del mastermind Arjen Lucassen e non ha mai nascosto il suo desiderio di poter essere coinvolto, un giorno, in un progetto del polistrumentista.
Lo scorso anno James e Arjen discussero della possibilità di lavorare insieme, ed il tutto prese forma appena iniziarono i lavori sul nuovo cd degli AYREON. Arjen ideò per il vocalist un ruolo drammatico e passionale, l’ideale per mostrare tutta la versatilità della voce di James, in modo particolare i suoi toni caldi, che Arjen ama».

Tutto nacque dunque nel 2002, quando James LaBrie e i Dream Theater, erano sulla cresta dell’onda con la pubblicazione di Six Degrees of Inner Turbulence. Un anno dopo Lucassen trovò il suo protagonista: «Mandai una mail a James – rivela Lucassen nel trailer The Singers of Ayreon – dicendogli che mi piaceva il suo modo di cantare e la sua musica, e che sarebbe stato bellissimo se avesse fatto parte degli Ayreon. Lui mi rispose: “Certo! Dì una parola e io sarò lì da te”. Questo Human Equation era perfetto per lui. Ho scelto di dargli il personaggio “Me”: è il protagonista della storia. Si tratta di un ragazzo in coma. James venne qui estremamente preparato, sapeva perfettamente cosa fare, conosceva le melodie e divenne veramente l’unico ad avere una parte. Ebbe le parti più soft perché mi piace il suo modo di cantare soft, la sua voce è così calda e piena. Ma gli ho assegnato anche diversi strilli».

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