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Skid Row – 40 Seasons: The Best of Skid Row (1998)

3 Set

Sapendo che non siete molto amanti dei best of, vediamo un po’ cosa posso proporvi oggi? Beh, direi che un “best of” fa al caso nostro (infame fino in fondo…)! Siamo nel 1998, Sebastian Bach ha da due anni lasciato gli Skid Row per fondare i Last Hard Men, così la Atlantic Records, visto il rischio di veder decadere il nome della band, decide di monetizzare il marchio e da questa idea nasce 40 Seasons: Best of Skid Row. Una raccolta di 16 tracce che per i fans dell’epoca deve essere stato un vero gioiello da collezione. Innanzitutto per i venerati Skid Row, 40 Seasons fu la prima raccolta.

Ci sono tutti i brani che hanno fatto la storia di questa band, da 18 and Life a Youth Gone Wild e la motleycrueiana I Remember You. E siccome con i primi tre album, non c’era stata la possibilità di inserire in presa diretta altro materiale extra, fu l’occasione buona per arricchire il bagaglio culturale dei seguaci con alcune chicche inedite: Forever (emersa dal materiale di scarto del 1988, mentre gli Skid registravano il primo disco omonimo) e Fire in the Hole (registrata durante l’incisione nel 1991 di Slave to the Grind), sono le due tracce mai pubblicate prima.

Per quanto riguarda Into Another, My Enemy e Breaking Down, sono state tutte remixate con le apparecchiature più vicine a fine millennio, probabilmente per avvicinarle alle prime tracce. Frozen è una demo del 1994, mentre l’ultima traccia, Psycho Therapy, è una cover dei Ramones che è stata estromessa soltanto nella versione giapponese del best. La copertina del disco, completamente grigia metallica, riporta la classica fiammella stilizzata che ricorda quella più magmatica di Audioslave (non credo sia stata una citazione di Morello e soci…). Consigliato agli amanti del genere e anche a quelli un po’ frivoli (ma volutamente), poco esigenti e con grande voglia di sentire musica melodica mischiata alla durezza dei distorsori, senza per forza innalzarsi sull’altare degli Dei…

Stan Getz & The Oscar Peterson Trio – Ballad Medley (1957)

3 Ago

Medley comprendente Bewitched, I Don’t Know Why, How Long Has This, I Can’t Get Started, Polka Dots And Moonbeams. Un quartetto d’eccezione: il sassofono di Stan Getz e la classe cristallina dell’Oscar Peterson Trio, formato dall’immancabile pianoforte di Oscar Peterson, da Rey Brown al basso e Herb Ellis alla chitarra.

Senza la batteria, il suono del sassofono di Getz può esplodere tutta la sua maestosità, come gli altri strumenti trascendere sul piedistallo degli assoli. Ogni momento è un assieme. Da gustare in tranquillità, possibilmente di sera, rilassati e con un bicchiere di Cognac alla mano.

Johnny Dodds – The Chronogical Classics 1927-1928 (1991)

17 Giu

Biennio 1927-28: New Orleans. Siamo di nuovo nella città del jazz, e il disco che vi segnalo oggi racconta il clarinettista Johnny Dodds. Arrivato da giovane a  New Orleans, Dodds iniziò a suonare nei Dixieland Jug Blowers. Mentre questo disco che la Chronological Classics pubblicò nel 1991 rappresenta la testimonianza dell’attività di Dodds nel periodo  successivo al suo esordio negli Hot Five di Louis Armstrong. Sono 24 tracce, con registrazioni relative a più formazioni in cui l’unico ad esserci sempre è proprio Johnny Dodds. Dai Jimmy Blythe’s Owls ai Johnny Dodd’s Black Bottom Stompers, e poi ancora brani dei Chicago Footwarmers, dei Dixie-Land Thumpers, fino ai Jimmy Blythe’s Washboard Wizards, la Original Washboard Band con Jasper Taylor alla washboard, e infine il Johnny Dodds Trio composto oltre che dal clarinettista anche dai pianisti Bill Johnson e Charlie Alexander, mentre nell’ultima traccia a suonare la washboard è il fratello di Johnny, Baby Dodds. Vi consiglio di ascoltarlo, magari leggendo la particolare storia di Natty Dominique, il cornettista bianco presente in alcune registrazioni con i Black Bottom Stompers e con i Chicago Footwarmers. Quest’ultima la formazione più interessante, con un cast che prevedeva un quartetto mobile composto anche dal trombettista George Mitchell, dai trombonisti Kid Ory e Honore Dutrey, dal pianista Jimmy Blythe e dal bassista Bill Johnson.  Tra i brani, storici pezzi come Have MercyCome on and Stomp, Stomp, Stomp (di Fats Waller), Ballin’ the Jack, Brown Bottom Bess e Blue Clarinet Stomp.

At The Gates – Slaughter Of The Soul (1995)

28 Mag

Artista/Gruppo: At The Gates
Titolo: Slaughter Of The Soul
Anno: 1995
Etichetta: Earache

Le circostanze hanno voluto che mi trovassi a rovistare nel baule della soffitta. Aperto, ho trovato mille cose ma solo una luccicava e mi chiamava a sé. Era un disco, impolverato dall’età. Appena l’ho aperto è uscito un alito gelido di violenza e devastazione che mi ha attraversato l’anima. Passato il momento di terrore ho potuto leggere cosa vi era scritto: Slaughter Of The Soul. Massacro, carneficina, abbattimento dell’anima. Ho inserito il cd nello stereo, il resto lo hanno fatto gli At The Gates. Gruppo rivelazione della mia collezione di dischi (non per chi segue costantemente questa branca del metalcore), una ventata di metal in versione death-swedish. Alcuni lo chiamano Gothenburg Sound, per il fatto che nei primi anni ’90 proprio dai sobborghi di questa città svedese videro la luce diversi gruppi di questo stesso filone musicale, che mescola la melodia (poca) alla violenza (tanta). Assieme a band come Dark Tranquillity e In Flames, gli At The Gates furono tra i padri fondatori del Melodic Death Metal.

La storia di Slaughter Of The Soul è simile a tantissime esperienze rock, perché è l’album capolavoro degli ATG (tanto che l’etichetta Earache farà carte false per scritturarli in vista delle session in studio), ma allo stesso tempo segnerà la fine degli At The Gates. Val la pena ascoltarlo, e riascoltarlo. Lievemente, trash e scream cedono il passo a un metal ben fatto (seppur durissimo) anche per il merito dei componenti, tutti eccezionali musicisti. Tra questi però, mi sento di annoverare il chitarrista Anders Björler e il batterista Adrian Erlandsson, quest’ultimo poi assunto (fino al 2006) dai Cradle Of Filth. Diverse altre curiosità emergeranno dalla spiegazione delle singole tracce.

Ultimi due aspetti. Primo: questa recensione prende ad oggetto la ristampa dell’album avvenuta nel 2002, in cui la casa discografica Earache inserirà altre 6 tracce in aggiunta alle 11 dell’originale. Il secondo punto: Slaughter Of The Soul, oltre ad essere un album pieno, è anche intriso di suggestioni e influenze di diverse band, non solo svedesi. Anzi, il gruppo che forse più ispira gli At The Gates sono gli Slayer.

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Non confondiamo uno sfilatino con The Wall

24 Mag

Torno sul tema del diritto d’autore, annoso dilemma sul quale ogni ramo del pensiero umano (sia esso economico, sociale, filosofico) sta cercando di capirci qualcosa, aprire una strada di mezzo, un compromesso tra il tutto o niente. Quando si parla di diritto d’autore, si parla di economia, di mercato, una protezione di un prodotto dalle grinfie della pirateria. Quanto accadeva ieri con le copie in cd, è nulla rispetto a quanto avviene oggi con internet. Ne ho parlato tanto, e continuerò a farlo. Conscio che la via per una soluzione sia insita al dibattito, mi riservo allora alcune riflessioni su un recente commento pubblicato dallo scrittore Elvio Baccarini sulla Voce del Popolo, quotidiano degli Italiani dell’Istria e del Quarnero.

Titolo: “L’egalitarismo liberale tra rivoluzione e liberismo”. Ho capito subito che il Baccarini intendeva parare sulla politica. Qui, il muro contro muro non è però tra destra e sinistra (intese nella storica concezione del loro essere), ma tra due concetti basculanti tra l’una e l’altra sponda: permesso e divieto. Insomma, bianco o nero. Baccarini spiega che può esserci una via di mezzo tra la protezione totale di un bene e la sua deregulation. La prende alla lontana, attaccando il filosofo sloveno Slavoj Žižek, di recente visita a Zagabria, accusato di essere poco chiaro: «Questi appartiene a una scuola filosofica che ha fatto della non comunicabilità il proprio biglietto da visita». Circa la presunta incomprensibilità di tale scuola, il Baccarini attacca: «Ne sono stato vittima recentemente in occasione di un dibattito organizzato dagli studenti sui diritti d’autore e la lotta alla pirateria, soprattutto su Internet».

Mi aspettavo allora una dissertazione sulla chiarezza, chiara essa stessa. Nulla di tutto questo. Il seguito preferisco riportarlo integrale per poi commentarlo nelle parti sottolineate.

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Dream Theater – Burning my Soul (1998)

3 Mag

Più continuo a (ri)vederli, e più mi domando perché. Perché mi ero così infatuato di questo gruppo, perché mi ero convinto fossero i musicisti che più spaccavano nel panorama rock mondiale. Perché tutti quei pomeriggi a dibattere con David dei buoni propositi di Petrucci e soci. Perché, poi, così tanta distanza tra i lavori in studio e quelli in live (già, qualcosa non va, da troppo tempo…). Perché.

No, non ce l’ho con i Dream Theater. Ognuno è artefice del proprio essere, e loro hanno saputo sfruttare l’onda. Eppure, stavolta non c’entrano le manie da protagonista di Portnoy, stavolta lui è lì dietro che si barcamena ma senza esagerare. Eppure, LaBrie non sfora, Petrucci è lì buono e diligente buttando in mischia quei tre-quattro accorducci semplici e basilari. Tutti, eseguono. Stop. Ma anche l’esecuzione vuole il suo groove, la sua dialettica tra le parti. Qui siamo neanche troppo avanti nel tempo.

Cerco la giustificazione: qui erano ancora molto acerbi. Era il ’98 (Live in Paris, tratto da 5 Years in a Livetime), e sembrano già una band di professori universitari stufi di quello che insegnano. Burning my Soul (da Falling Into Infinity), in live è una schifezza pazzesca (come potete vedere, con i Dream non uso più neanche i mezzi termini come continuo a fare con i Metallica…), un brano che riascoltato la seconda volta consecutiva fa venire voglia di uscire e udire gli uccellini canticchiare. Meglio.

Erano acerbi, ma per i live più recenti la situazione degenera anziché livellarsi, e adesso non so più che periodo prendere in considerazione. Per quanto mi riguarda, sono rimasto ad apprezzarli per i lavori in studio, ma dal vivo, sebbene non sono ancora ai livelli di odio profondo del Prof (ma andatevi a leggere la sua recensione sull’ultimo Live, vi prego…), sono diventato molto critico nei loro confronti. E la critica si acuisce verso chi pretende di stare al top: è il dazio che si paga per il successo. Ma è anche bella se fatta con passione. Ormai è diventata una corsa a ritrovare i miei amati DT: li ho persi completamente di vista. O per fare una citazione: ora che ho perso la vista, ci vedo di più…

The Stone Roses – The Stone Roses (1989)

10 Apr

Artista/Gruppo: The Stone Roses
Titolo: The Stone Roses
Anno: 1989
Etichetta: Silvetone

Ascoltando ieri la versione di Imagine di John Lennon rifatta nel 2004 degli A Perfect Circle, tetra, cupa, volutamente annebbiata, mi domandavo quanto il periodo storico possa condizionare le sonorità di un brano, o di un disco, e piegarle dalla felicità alla tristezza, dalla speranza al pessimismo. Da distanza ben calibrata, è la stessa sensazione che provo quando ascolto dischi come The Stone Roses, album d’esordio dell’omonima band di Manchester che forse, più di tante altre, ha contribuito alla nascita del successivo brit pop.

Gruppi come Blur, Oasis, Verve, devono quasi tutto agli Stone Roses, che sul finire degli anni Ottanta mescolavano l’alternative rock a fusioni più propriamente house che derivavano da Oltreoceano, oltre a quel pizzico di reminiscenza di matrice Sixties. Protagonisti (assieme a band del calibro di New Order e The Smiths) del movimento Madchester. Ebbene, The Stone Roses è un album fresco, genuino, solare, frizzante e ottimista, il tutto in ossequio allo straordinario e allo stesso modo impraticabile risveglio economico di quegli anni. E proprio a ridosso delle registrazioni di questo esempio di successo fulminante, veniva a cadere anche l’ultima barriera ideologica tra l’est e l’ovest.

Gli SR ne fanno menzione velata, quando il cantante Ian Brown accenna in Waterfall: «This American satelite’s won», oppure «Soon to be put to the test, to be whipped by the winds of the west». Ma la politica, e la Guerra Fredda che stava per concludersi, non interessava più di tanto. C’erano soprattutto i rave, le feste, nel cuore di una Manchester capitale dell’industria britannica (400mila abitanti circa) e un locale, l’Hacienda, che in quegli anni fu la vera tana dei gruppi Madchester. Insomma, si stava bene (o almeno si fingeva di esserlo), e la musica ricalcava quello stesso stato d’animo. Magari, rielaborandolo ora quell’album, un gruppo attento come gli A Perfect Circle, lo farebbe deflagrare per ricostruirlo dalle fondamenta, più solido, meno ipocrita e sicuramente più fosco.

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L’EMOCENSIONE | The Decemberists – The Tain (2004)

22 Mar

Artista/Gruppo: The Decemberists
Titolo: The Tain
Anno: 2004
Etichetta: Kill Rock Stars

Mi accade sempre con più frequenza di imbattermi in gruppi che si rifanno ad antichi testi. E se con i Popol Vuh eravamo al testo sacro dei Maya, stavolta, con i Decemberists ci troviamo di fronte a un racconto epico: Táin Bó Cúailnge (La razzia di vacche di Cooley). Il disco è senza titoli ma solo numeri romani, sei tracce legate in un solo brano di 18 minuti. The Taìn, che è una leggenda epica di origine irlandese, risalente alla notte dei tempi (I secolo a.C.), di cui restano solo due codici che affondano le loro radici al XII secolo.

Traendo spunto dal Taìn, i Decemberists – band statunitense affine al panorama Alternative/Indie Rock – costruirono il loro secondo Ep dopo 5 Songs: The Tain, appunto. E se Callimaco propugnava il concetto di “brevitas” in prosa, meglio non potevano fare i cinque “decabristi” di Portland. Diciotto minuti per raccontare la saga del toro Finnbhennach, che, emigrato dalla mandria della regina Medb a quella del re Ailill, dà vita a una guerra infinita e sanguinosa tra il Connacht e l’Ulster, difeso da un unico eroe, il diciassettenne Cúchulainn.

Le prime note basse di chitarra acustica sono il passo del toro che attraversa il recinto, il cantore allora illustra i temi principali della storia agli uditori, dall’alto di un masso, tra praterie verdi, e grattacieli. I personaggi sono accovacciati in una grotta, al caldo, avvolti in una feticcia sensualità: «She’s a salty little pisser with your cock in her kisser». Notizia shock, cambia tutto. Ma come? E l’epica, la poesia? Beh, gli antichi sapevano usare parolacce e offese meglio di quanto facciamo noi oggi. Dunque si entra nella fase II, l’urlo delle chitarre di Funk e Meloy di ledzeppeliana memoria (anche se non lo ammetteranno mai, si fanno grossi millantando influenze da gruppi impronunciabili…), subentra l’anacronismo americano, esce fuori anche Carlo Magno e l’M-5 (la metropolitana di Milano? Il missile francese? Bah).

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The Oscar Peterson Trio – Bursting Out With The All Star Big Band! – Swinging Brass (1996)

11 Feb

Questo non è un doppio disco ma sono due dischi in uno. Oscar Peterson in versione orchestra, la sua musica, le sue note accompagnate da due big band di eccezione. Diciotto tracce in totale, che nel 1996 la Verve decise di unire in un unico CD. Piaccia o no, loro ci hanno trovato un’affinità, parlando di dischi «compagni», una «teo-for-one reissue» per la precisione. Si parte dalle nove tracce di Bursting out with the All-Star Big Band. Anno 1959: è l’Oscar Peterson Trio con l’immancabile Ray Brown al basso e il batterista Ed Thigpen al posto dell’insostituibile chitarra di Herb Ellis (che abbandonò il Trio nel ’58). Ad accompagnarlo, sotto la direzione di Ernie Wilkins, ci sono fiati del calibro di Cannonball Adderley, Norris Turney, Roy Eldridge, Slide Hampton e James Moody.

Un tripudio di collaborazioni incrociate, dove la musica del terzetto si incastra (ma meglio dire: viene abbracciata) dalla potenza di trombe, sax e tromboni.

Meno convenzionale, ma non per questo inferiore (anzi!), il secondo album, Swinging Brass, più riflessivo, dove sotto la direzione attenta di Russell Garcia, il piano di Peterson si riprende il ruolo di protagonista assoluto.

Robert Johnson – Me and the Devil Blues (1937)

9 Dic

Ricordate il post su Me and Mr. Johnson di Eric Clapton? Tra quelle tracce coverizzate da Slowhand, c’era anche Me and the Devil Blues. Copio la stringa che avevo scritto sul brano:

Me and the devil blues è semplicemente il motivo per cui i testi di Johnson furono spesso considerati demoniaci. Sembra di starlo a sentire mentre racconta la storia della sua dipartita con il demonio, che causerà botte e percosse alla donna (anche questa una costante dei brani di Johnson), lei gli chiede il perché, me lo ha detto Satana risponde, per poi chiedere di seppellire il suo corpo al bordo dell’autostrada, così l’anima potrà prendere il primo bus e volare via.

A questo connubio con satana, ma anche del miracolo-maledizione di Robert Johnson, avevo parlato anche in merito a Frank Marino. Sopra c’è il brano originale, lo potete trovare, tra gli altri, nella bellissima raccolta Robert Johnson – The complete recordings, un po’ difficile da trovare ma una delle migliori in circolazione, se non la migliore in assoluto. Di seguito il testo integrale:

Early this mornin’

when you knocked upon my door
Early this mornin’, ooh
when you knocked upon my door
And I said, “Hello, Satan,”
I believe it’s time to go.”
Me and the Devil

was walkin’ side by side
Me and the Devil, ooh
was walkin’ side by side
And I’m goin’ to beat my woman
until I get satisfied
She say you don’t see why

that you will dog me ‘round
spoken: Now, babe, you know you ain’t doin’ me
right, don’cha
She say you don’t see why, ooh
that you will dog me ‘round
It must-a be that old evil spirit
so deep down in the ground
You may bury my body

down by the highway side
spoken: Baby, I don’t care where you bury my
body when I’m dead and gone
You may bury my body, ooh
down by the highway side
So my old evil spirit
can catch a Greyhound bus and ride